Dicono da giorni che non siamo «nisciuno». E noi abbiamo fatto di tutto per farglielo credere, inutile nasconderlo. Così capita che una squadra che ha scritto la storia dell’Europa calcistica debba in qualche modo “soccombere” alla spocchia (giustificata, eh) di tifosi che affrontano per la prima volta un quarto di finale di Champions League. Per. La. Prima. Volta.
Ma la lezione non sembra esser stata compresa dagli ambienti di Milanello nemmeno dopo il sorteggio: alle spalle il modesto, modestissimo pareggio casalingo con la Salernitana, ecco che il 3-1 di Udine diventa ulteriore conferma di quanto (giustamente, ripeto) hanno pensato, detto, sottoscritto i tifosi del meraviglioso Napoli al momento del sorteggio di Nyon.
Una parola? Svilente. Svilente per chi dovrebbe essere chiamato, oggi più che mai, a ricordarsi dove gli è permesso di giocare, le stanze che frequenta, la maglia che indossa, la mentalità che accompagna un club che dovrebbe considerare questi quarti di finale di Champions come “casa” sua. E invece viene irriso. Irriso perché il campo parla sempre. E il campo, in questa annata post scudetto, ha pianto fin troppo.
Perché questo commento? Perché, all’alba dell’ultima sosta stagionale prima del rush finale, come suggerito da tanti tifosi sui social servirebbe che determinate immagini pervadessero la memoria dei telefonini di tutti i tesserati Milan: giocatori, staff, dirigenza. Nessuno escluso. Un po’ come quando Pioli attaccò nello spogliatoio un foglio con quelle celebri parole di Calhanoglu. Un po’ come quando Carnevali, alla vigilia di Sassuolo-Milan 0-3, fece il miglior assist possibile a Rafa Leao.
Serve questo, ora più che mai. Ricordarsi chi siamo. E che dobbiamo ritornare.
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