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Ambrosini si racconta: “Dal docufilm al Milan di oggi: vi dico tutto. Intervallo di Istanbul? Dette tante cazzate…”

Massimo Ambrosini si racconta ai microfoni di Sportweek, inserto settimanale della Gazzetta dello Sport. L’ex centrocampista rossonero ha toccato diverse tematiche nella sua intervista, partendo dal docufilm DAZNStavamo bene insieme“, passando anche all’attualità riguardante il Milan. Ecco le sue parole.

Sulla sua prima volta a San Siro: “Fu proprio per un Milan-Juventus, valido per il Trofeo Berlusconi. Ero appena stato acquistato dai rossoneri. Ricordo perfettamente il momento in cui salgo le scale che dallo spogliatoio portano al campo e passo dal grigio dei gradini al verde del prato illuminato dai riflettori. Il primo pensiero fu: “Io qui non ci potrò mai giocare perché c’è troppa gente. È troppo per me” (ride). Venni travolto dalla bellezza di ciò che avevo intorno“.

Su San Siro: “La sua architettura lo rende speciale. La disposizione dei tre anelli, le luci che cadono dall’alto… Già da fuori offre una senso di maestosità. Nuovo stadio e abbattimento? Penso che le due cose vadano insieme: lasciare San Siro è purtroppo una necessità, abbatterlo ne è la conseguenza se si vuole restare nell’area dove oggi sorge il vecchio impianto“.

Sul suo Milan che nel giro di quattro anni disputo tre finali di Champions: “Stavamo bene insieme, come recita il titolo del film. Quando fai parte di un gruppo, sei obbligato a stare insieme agli altri. Ma questo obbligo non fa diventare automaticamente di qualità il tempo condiviso. Essa viene determinata dalla qualità delle persone. Dal carattere, dalla disponibilità, dall’umiltà e dalla condivisione dei momenti, sportivi e privati. Quel Milan aveva un’attitudine al lavoro, al sacrificio e all’accettazione dei reciproci difetti e differenze, che l’ha reso speciale. Eravamo persone diverse nella visione del calcio e della vita, ma questo non ci ha impedito di incontrarci, riconoscerci e di scendere a compromessi, in campo e fuori, che hanno contribuito a farci vincere tanto. Essere campioni implica la presenza nell’individuo di valori morali di un certo tipo“.

Su Gattuso, Inzaghi, Maldini, Nesta e Pirlo: “Il termine ‘famiglia’ viene usato anche nel film, ma io ho una concezione della famiglia un po’ più alta. Sono stati compagni, certo, compagni di un viaggio professionale e umano. E amici sicuramente. Con chi ho mantenuto contatti più frequenti? Pirlo, ma è un caso“.

Sui suoi ex compagni: “Gattuso era il compagno che avresti sempre voluto al tuo fianco. Pippo era quello che quando c’era da mettere il timbro importante, non solo in partita, lo faceva. Maldini è sempre stato il papà del gruppo. Da lui ci sentivamo protetti. Col tempo questa sensazione si è un po’ affievolita e le distanze si sono ridotte, perché da una parte noi crescevamo, dall’altra lui ha iniziato ad assorbire la nostra spensieratezza e goliardia. Nesta era istintivo e razionale. Pirlo era il genio timido. Aveva intuizioni brillanti in campo e fuori. Era geniale nelle sue battute, nei modi di fare, nelle prese in giro a Gattuso. Non ti aspettavi che uno come Andrea prendesse per il culo Rino, invece lo faceva e in risposta si beccava le forchettate in testa a tavola. Inzaghi era il più scaramantico: metteva le mutande con cui aveva segnato quando ancora stava nella Primavera, la maglia della salute con cui aveva segnato un gol decisivo… Il più spiritoso era Rino. Quando era in forma faceva ridere. Il più permaloso era sempre Rino, più che altro perché gli scherzi erano sempre rivolti a lui. Portava il pesce dalla sua pescheria, lo faceva cucinare dai cuochi di Milanello, e noi, puntualmente, da tavolo a tavolo: ‘Ragazzi, oggi ‘sto pesce non è granché, vero?’. Lui rispondeva: ‘Aho’, ma che cazzo dite?!’. Il più competitivo? Tutti. Un segreto delle nostre vittorie è che eravamo capaci di menarci nella più inutile delle partite di allenamento. Questo ci ha permesso di alzare il livello. Il ‘peggiore’ di tutti era Shevchenko“.

Un aneddoto del film: “Quello in cui Pippo racconta la gestione dei rigori nella finale di Champions contro la Juve, quando simula un mezzo crampo per non tirare dal dischetto“.

Sulla vigilia più sentita delle tre finali: “Proprio quella contro la Juve. Perché era la prima dopo tanto tempo e perché giocavamo contro una squadra italiana. Stavamo in un hotel con i campi da golf davanti. Facemmo delle interminabili passeggiate sul green per allentare la tensione“.

Sull’intervallo della finale di Istanbul sul quale si è detto di tutto: “E si è detto un mare di cazzate. La verità è che nei primi cinque minuti, seduti negli spogliatoi, noi giocatori litigavamo. C’era la volontà di finire il lavoro e si discuteva sul come farlo nel modo più rapido e sicuro. La tensione era altissima, altro che risate e canti come qualcuno si è divertito a raccontare. Intervenne Ancelotti: ‘Basta, avete stufato, adesso state zitti perché vi dico io due cose da fare’. Rientriamo in campo e il secondo tempo riparte da dove era finito il primo: dominio assoluto da parte nostra. Poi in un quarto d’ora succede che loro ce ne fanno tre e pareggiano. Ricominciamo ad attaccare, fino alla parata miracolo di Dudek su Shevchenko all’ultimo minuto dei supplementari. Dudek stesso, anni dopo, disse che una forza ultraterrena aveva sollevato il suo gomito a deviare la palla scagliata da un metro. Io so che ancora non ci credo…“.

Sulla rivincita di Atene: “Eravamo felici di averli ritrovati. Vedi com’è il calcio: perdi una finale giocando la tua miglior partita, giochi normale un’altra finale e vinci. Se vogliamo romanzarla, ci fu restituito quello che ci era stato tolto. Ma non ci era stato restituito a gratis: la rivincita col Liverpool ce l’eravamo guadagnata eliminando Bayern e United“.

Sul motivo per cui non abbia intrapreso la stessa strada dei suoi ex compagni: “Perché ho voluto dare priorità alla qualità della vita. Durante la carriera ho coltivato altri interessi che ho dovuto mettere da parte. Una volta smesso, li ho ripresi. Me la sono goduta. E non ho rimpianti“.

Sulla forza delle idee e della storia per colmare il gap con le grandi d’Europa: “Basta per far bene in Italia, sì. Per convincere Haaland o Mbappé, ci vuole una forza economica che ora il Milan non ha. Il percorso tecnico è quello giusto, ha basi solide. A queste basi servirebbe aggiungere giocatori di livello, per i quali servono soldi. E per avere soldi, visto che in Italia i diritti tv valgono un quarto rispetto a quelli venduti dalla Premier, l’unico modo è lo stadio di proprietà“.

Su Milan-Juventus: “Nettamente dalla parte del Milan. Al di là del risultato di stasera, il percorso fatto, le scelte societarie e tecniche prese hanno portato il Milan avanti. Non bisogna mai dar la Juve per morta, ma dal punto di vista strategico il Milan parte davanti“.

Su Leao: “Pioli lo paragonò ad Henry: ha ragione. È un auspicio affinché Leao faccia un ulteriore salto di qualità a livello realizzativo, diventando un grande attaccante come è stato Henry“.

Su Pioli: “Non lo conoscevo di persona. È figlio di un calcio moderno, in continua evoluzione. Bravissimo nel proporre cose sempre nuove senza confondere i giocatori. Se guardi gli ultimi due anni e mezzo, il Milan non ha mai attraversato un vero momento di difficoltà“.

Sul paragone Kaká-De Ketelaere: “La suggestione del paragone ci sta. Kaká era più potente nella sua progressione, ma De Ketelaere è un finto lento. Ha forza e tecnica, tiene botta sul primo contatto e poi va, come faceva Kaká. Gli va dato tempo per osare di più. Deve finire l’apprendistato“.

Sul paragone tra Gattuso-Ambrosini e Tonali-Bennacer: “Chi meglio? Io e Rino, nettamente (ride, ndr). Sul serio: loro sono il prodotto del calcio attuale, che ai centrocampisti davanti alla difesa chiede molte più cose di quante ne facessimo noi. Io e Gattuso eravamo circondati da compagni di tale qualità, che il nostro compito principale era recuperare palla e consegnarla a chi potesse farne buon uso“.

Massimo Ambrosini - MilanPress, robe dell'altro diavolo
Massimo Ambrosini – MilanPress, robe dell’altro diavolo

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