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Gazidis: “Sto molto bene. Non vorrei mai più trovare il Milan come era due anni fa: il percorso…”

Tantissimi temi sono scaturiti dall’intervista rilasciata a SportWeek da Ivan Gazidis. Ecco tutte le dichiarazioni dell’amministratore delegato rossonero all’inserto settimanale della Gazzetta dello Sport.

Bene, sto molto bene. Le cure hanno fatto l’effetto che ci aspettavamo e posso considerarmi fortunato, molto fortunato. È come se tornassi da un viaggio. Un lungo e tribolato viaggio nel quale ho imparato tanto“.

Sul momento della diagnosi del carcinoma alla gola: “Ho avuto una reazione molto razionale. Pensavo… E adesso come lo racconto alla mia famiglia? Pensavo a come riorganizzare le relazioni e il lavoro. L’emozione più grande l’ho provata al rientro a San Siro. Ho avuto un’accoglienza così calda e così inattesa che mi sono commosso. Ho sentito vicinanza vera. Ho capito quanto è grande il cuore dei tifosi rossoneri“.

Sugli insegnamenti di questi sei mesi: “Una lezione semplice, che può essere utile a tutti: dobbiamo avere cura di noi. Mi sentivo immortale, stavo bene e non prendevo nemmeno un’aspirina. Mi sentivo in salute, ma era solo apparenza. Ora so di essere vulnerabile, ma paradossalmente sono ancora più forte e do ancor più valore alle cose che contano. Nei momenti più difficili ho avvertito un fortissimo senso di responsabilità per la mia famiglia e per il club, ho capito lucidamente quanto sia importante quello che stiamo costruendo con e per la squadra. In questi casi si ridefiniscono le priorità. Le mie sono la famiglia e il Milan“.

Su chi l’ha aiutato in questo periodo: “Chiaramente mia moglie, le persone più care e il club che mi ha fatto sentire sempre una grande vicinanza. Ma è stato importantissimo parlare con chi ha avuto lo stesso cancro, condividere le sensazioni e la fiducia nel futuro“.

Sulla sua decisione di dedicarsi completamento al calcio, nonostante gli studi: “Fu una pazzia, e così la considerarono la mia famiglia, i miei amici… Tutti! La verità è che partii per gli Stati Uniti spinto dalla passione infinita per il calcio e avevo già in mente il progetto che ha portato all’attuale MLS, la Lega del calcio professionistico americano. Arrivai a Los Angeles nel 1994, l’anno del Mondiale d’America, con il mio amico Mark Abbott. Lavoravamo, da indipendenti, allo sviluppo della nuova Lega negli stessi uffici dove si organizzava la Coppa del Mondo. Mark aveva una piccola scrivania in uno sgabuzzino, io appena fuori, nel corridoio. Ora Mark Abbott è presidente e vice commissioner della MLS. Io ho lavorato per 14 anni per la Lega americana, 10 anni all’Arsenal e ora sono amministratore delegato del Milan. Posso dire che la pazzia che mi ha portato negli Usa, in realtà si chiamava progetto della passione“.

Sulla sua esperienza sul campo: “Ero un difensore molto veloce. Correvo i 100 metri in 11”2, ma non avevo una tecnica da fuoriclasse. Quando studiavo al liceo, a Manchester mi hanno fatto giocare davanti e ho segnato 45 gol in 18 partite… e non sono più tornato in difesa. Mi piaceva la gloria che dà il gol…Amo tantissimo il calcio. Ancora adesso trovo più piacere a giocare che a vedere una partita. Come tutti avrei voluto essere parte attiva di questo gioco meraviglioso. Mi considero comunque fortunato per aver avuto una seconda opportunità, anche migliore di quella che il destino concede ai giocatori“.

Sull’importanza di aspetti economici e sportivi di un club: “Sono come due ruote della stessa bicicletta. Non puoi avere una squadra forte nel calcio moderno senza una marcata responsabilità e una solida posizione finanziaria. Ma non sono mai stato esclusivamente un amministratore, mi sono occupato anche delle scelte e delle decisioni sportive“.

Sull’eredità lasciata dall’esperienza americana: “Ho avuto il privilegio di vedere il calcio da diversi punti di vista. L’avventura della MLS mi ha fatto guardare allo scenario sportivo, ma anche all’organizzazione e al business. All’Arsenal ho imparato che cos’è un club. Un grande club. Ora, in quanto ad, ho una visione che fonde la responsabilità finanziaria con la centralità del gioco“.

Sulle differenze con l’Arsenal: “Ogni club ha la sua storia. Il Milan ha tifosi straordinari che mi hanno colpito per competenza e autenticità. Ma i valori di riferimento sono gli stessi che avevamo all’Arsenal. Valori a cui tutti devono far riferimento, tutti quelli che lavorano per il Milan, a partire dai giocatori. Il primo valore è quello dell’unità, che significa coesione d’intenti, ma soprattutto inclusione. Da noi sono tutti benvenuti! E poi c’è uno stile di comportamento che si associa al Milan, direi che si può sintetizzare con la parola eleganza. E la volontà di guardare avanti, anche oltre i confini del calcio, di avere una prospettiva. Ecco: inclusione, eleganza di comportamento e prospettiva dovrebbero ispirare tutto ciò che facciamo“.

Sul progetto rossonero: “Fin dal primo giorno abbiamo avuto una strategia chiara basata su 4 principi. Primo: il campo come priorità, perché il calcio moderno non è solo un sistema di gioco, ma è una mentalità. Velocità, pressing, uno contro uno con le transizioni come momento fondamentale. Non vorrei mai più trovare il Milan come era due anni fa. Vorrei un Milan forte, che faccia emozionare e crei orgoglio in tutti i rossoneri! Secondo: aumentare i ricavi con una nuova organizzazione. Milan è un brand forte che ha oltre 500 milioni di sostenitori nel mondo. Siamo il marchio sportivo italiano più forte in diversi mercati strategici come gli Usa e la Cina. E negli ultimi 12 mesi abbiamo chiuso contratti con 21 nuovi sponsor. Terzo: un nuovo stadio. È necessario per avere futuro. Quattro: creare le fondamenta per la sostenibilità economica. Abbiamo una proprietà solida, che ci sostiene e crede fortemente in questo progetto, ma il percorso è ancora lungo“.

Sul rinnovo di Pioli: “Persona di sensibilità superiore! Stefano cerca di capire gli altri e si preoccupa per tutti. Chi sente questa empatia e professionalità si getterebbe nel fuoco per lui. È un professionista in sintonia con la nostra visione. Di lui mi piace il fatto che rende facile ciò che sembra difficile“.

Su Maldini: “Paolo è anche una bandiera, una leggenda del calcio, ma è soprattutto un direttore sportivo che conosce benissimo il calcio e sa guardare avanti pensando alla sostenibilità economica. In questi ultimi tre anni è cresciuto tantissimo“.

Sul rinnovo di Ibra: “Sulle vicende dei singoli giocatori, preferisco lasciare la risposta a Paolo Maldini. Lo Zlatan che conosco io è un uomo di grande intelligenza e sensibilità. Ha un’identità privata che adoro e una personalità pubblica che alimenta e utilizza per motivarsi. Del resto per restare competitivi a grande livello, a 40 anni, la motivazione gioca un ruolo decisivo“.

Su Donnarumma: “Non amo parlare del caso e in generale del passato. La forza di un club non è nel singolo, ma nel collettivo. La mia mission è fare in modo che il club non dipenda da nessuno. Nemmeno da me“.

Sul settore giovanile: “Sono stato tra i fautori di un programma molto accurato per la crescita dei giovani in Premier League che sta dando grandi frutti: tutte le Academy inglesi si sono impegnate nell’ambizioso piano di crescita dei settori giovanili e ora assistiamo ad una spettacolare generazione di nuovi talenti inglesi. Noi al Milan stiamo seguendo quell’esempio. E quando un ragazzo arriva in prima squadra dal settore giovanile accade qualcosa di speciale per il team e per i tifosi: si rafforza l’orgoglio e il senso di appartenenza! Credo che tutta la Serie A dovrebbe seguire le stesse orme. Per crescere dovremmo fare sistema. E dovremmo trovare il coraggio di esporre i migliori giovani alle esperienze internazionali. Nella politica dei giovani le squadre italiane sono troppo protettive“.

Sui movimenti pro San Siro: “Li capisco benissimo e vi assicuro che abbiamo investito tempo e denaro per ipotizzare la ricostruzione sullo stesso stadio di San Siro. Ma c’erano ostacoli insuperabili e il nuovo edificio sarebbe stato completamente diverso da quello attuale. Io credo molto nel valore della memoria, ma credo che un grande club abbia la responsabilità di lavorare per creare nuovi ricordi memorabili. Dobbiamo pensare alle generazioni future, ai giovani fan di oggi costruendo un nuovo stadio che sia il più bello del mondo“.

Sulla scelta del progetto del nuovo San Siro: “Ci siamo quasi, devono essere definiti i dettagli ma l’annuncio è nell’aria. Sarà uno stadio meraviglioso e rivoluzionario, dentro una grande area verde, di oltre 50 mila metri quadri, che diventerà una delle zone più belle e vivibili di Milano. Sarà rapidamente un simbolo della città“.

Sull’insistenza della necessità di nuovi stadi: “È l’unica via per stare al passo con le migliori leghe del mondo. Tutte le grandi squadre hanno o si stanno organizzando per avere impianti all’avanguardia. Degli ultimi 150 stadi costruiti nel mondo, soltanto 3 sono italiani. La Major League, tra Stati Uniti e Canada ha realizzato 27 nuovi stadi e la Premier League genera ricavi da stadio tre volte superiori a quelli della Serie A… Non c’è altra via e non c’è più tempo da perdere“.

Su cosa gli manca del calcio inglese: “La Premier, in questo momento è la vera Superlega, ma non riesco a pensare al passato in termini nostalgici. Preferisco tenere i miei pensieri per il futuro e credo che il calcio italiano abbia tutto per evolvere. È la Lega con maggior potenzialità di crescita in Europa. Ma è il momento di fare qualcosa. Il calcio inglese negli Anni 80 era un mondo chiuso, che è stato costretto a cambiare. Il primo passo furono gli investimenti per costruire stadi all’avanguardia, più sicuri e inclusivi. Ecco, io credo che il calcio italiano debba aprirsi per puntare su un gioco più moderno e coraggioso, a quello che io definisco progressive football. In Italia il gioco subisce troppe pause. Ci sono troppi interventi arbitrali. Il tempo effettivo è inferiore e meno intenso di quello di altri campionati“.

Sui troppi fischi in Italia: “Non vorrei dare giudizi. Cerco piuttosto di mettermi dalla parte dei tifosi. Il calcio dovrebbe andare incontro a quello che piace alla gente. Ho come l’impressione che in Italia si voglia prima di tutto diminuire i rischi d’errore. Ma l’avversione al rischio non porta al bene del gioco. L’arbitro ideale è quello che rende la partita più fluida e naturale possibile“.

Sul VAR: “Sono lavori in corso. Non si può fare a meno della tecnologia, ma dovremmo imparare ad usarla meglio per diminuire le interruzioni di gioco“.

Sulla comunicazione degli arbitri: “Non so, onestamente, se possa aiutare. Durante le partite il 60/70 per cento delle decisioni arbitrali può essere dibattuto e interpretato. Il calcio non è un gioco dalle scelte chiare ed evidenti“.

Su cosa gli piaccia dell’Italia: “La generosità d’animo e lo spirito della gente. Sull’Europa aleggia un senso di scetticismo, su tutto. In America, invece, vince l’ottimismo. Ecco, quando la generosità d’animo si combina con l’ottimismo, dà risultati spettacolari e in Italia mi è capitato di trovare molte persone così“.

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