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Capello racconta Ibrahimovic: “Il paragone con Van Basten è possibile: vi spiego perché. Oggi…”

Fu colui che portò Zlatan Ibrahimovic in Italia (e ci ha tenuto a sottolinearlo), colui che lo completò e gli diede insegnamenti preziosi per la carriera. Fabio Capello racconta tutto dello svedese, dal suo arrivo alla Juventus fino ad oggi, nella prima parte dell’intervista rilasciata a SportWeek, inserto settimanale della Gazzetta dello Sport.

Sull’episodio del primo incontro con Ibra al primo allenamento in bianconero, quando non alzò lo sguardo dal giornale per salutarlo: “Non me lo ricordo, ma se l’episodio gli è rimasto così impresso, sarà vero. Di norma sono una persona educata, anzi l’educazione era uno dei valori a cui più prestavo attenzione nelle mie squadre. Evidentemente quel giorno ero così assorto nella lettura da non essermi accorto della sua presenza“.

Sulla paternità della scelta: “Partiamo dal fatto che Ibra l’ho scelto io. E lo scelsi quando ancora allenavo la Roma. Giocammo a Berlino un’amichevole precampionato contro l’Ajax. Lui non era sceso in campo dall’inizio, ma mi impressionò già nel riscaldamento durante l’intervallo: col pallone faceva ciò che voleva. Mi fermai apposta a osservarlo. Giocò nel secondo tempo e io capii che giocatore era e cosa sarebbe potuto diventare. Appena arrivai alla Juve chiesi a Moggi di prenderlo: per rinforzare l’attacco volevo lui e soltanto lui“.

Su che giocatore era l’Ibrahimovic 23enne sbarcato in Italia: “Era uno che doveva capire che giocare non significava divertirsi, vivere di abilità tecnica, ‘numeri’ con la palla e basta, ma voleva dire essere concreti. E lui questo nella testa non ce l’aveva. Da un giocatore di talento ci si aspettano – meglio: bisogna pretendere – miglioramenti continui e significativi: nell’attenzione e nella voglia, innanzi tutto. Il mio unico dubbio nei suoi riguardi era proprio legato al fatto che avesse un reale desiderio di migliorarsi. Un dubbio evidentemente non solo mio: l’Ajax lo cedette per 16 milioni e mezzo pagabili in quattro anni, segno che nel ragazzo non credeva poi tanto“.

E continua: “Ibra doveva progredire nei fondamentali: calciare in porta, perché non lo sapeva fare, e staccare di testa. Su questi due aspetti Italo Galbiati, mio assistente tecnico, lavorò molto“.

Un aneddoto sul fatto che non sapesse tirare: “Ricordo che venne da me Mino Raiola, il suo agente: ‘Ibra rompe le mani ai portieri’, mi disse. All’epoca la Juve si allenava al centro Sisport. Avevamo la palestra proprio alle spalle del campo. ‘Finora, l’unica cosa che ha rotto sono i vetri della palestra’, risposi. La maniera di tirare, e di conseguenza l’efficacia nel colpire il pallone, dipendono da tante cose: l’altezza, la misura del piede, e Ibra calza il 46… Doveva cambiare l’appoggio sul piede sinistro, ‘aprire’ di più la punta del destro, abbassare le spalle e piegare il corpo in modo diverso prima di calciare. Siccome è un fuoriclasse, ha capito che quello che volevamo insegnargli gli sarebbe servito per diventare più forte e si è dedicato tutti i giorni a un certo tipo di esercizi. Tutti i giorni, anche quando non voleva. Provava a filarsela negli spogliatoi, io lo richiamavo – ‘IBRA!’ – e lui trotterellava di nuovo in campo. La verità è che è più facile insegnare la tattica della tecnica e che è bello insegnare ai fuoriclasse: imparano subito. Gli mostri il movimento, il gesto e loro lo replicano immediatamente. Gli altri non ci riescono“.

Sul fatto che volesse togliergli tutto l’Ajax che aveva dentro: “Gli spiegavo: ‘Tu giochi per fare del circo, per divertire la gente coi tuoi numeri da giocoliere. Invece io voglio che fai gol’. Il suo difetto era che non andava davanti alla porta, come invece fa adesso, guardi il gol segnato al Venezia. Al contrario, a quei tempi girava per il campo, andava a destra e a sinistra, apriva spazi ai compagni. Insomma, sfruttava poco la sua tecnica e la sua fisicità per far male ai portieri. Gli feci preparare una videocassetta coi gol di Van Basten: ‘Tieni, e guarda come si fa gol’. Un giocatore di classe sublime come Zlatan poteva e doveva imparare da un giocatore di classe sublime come Van Basten“.

Su un possibile paragone con Van Basten: “È possibile, perché sono dotati entrambi di qualità e fantasia. Marco è sempre stato un cannoniere, Ibra ce lo aveva dentro. La sua fortuna è stata di trovare qualcuno che gliele tirasse fuori, le qualità da goleador che possedeva. Poi, anche l’olandese rientrava, si allargava, aiutava i compagni. Ma il suo pensiero ultimo era in ogni caso la porta avversaria“.

Sul fatto che per qualcuno sia un ’10’ travestito da ‘9’: “Ma scusate, uno con la sua tecnica, la sua altezza e la sua forza, lo togli dall’area di rigore?“.

Su qualcosa che non sia riuscito ad insegnargli: “Quello di cui aveva bisogno gliel’ho trasmesso, ma soprattutto gli è servita la scuola Juve, il senso di competizione di cui è intriso l’ambiente. Siccome lui è un competitivo, è orgoglioso, si considera un numero uno e vuole sempre vincere, si è sentito stimolato ancora di più“.

Un appunto: “Senza lo scempio di Calciopoli saremmo rimasti tutti alla Juve: lui, io, Emerson…“.

Sull’Ibrahimovic odierno: “Ogni tanto ci sentiamo ancora, sì. Lui ormai è un giocatore-allenatore. Uno di grande personalità che non può essere l’atleta di una volta, ma che porta esperienze positive alla squadra“.

Sul rispetto che lui da allenatore riusciva ad avere da parte di tutti: “Noi allenatori siamo uno contro quaranta tutti i giorni e veniamo giudicati dal modo in cui trattiamo le persone, a partire dalle più umili per finire ai giocatori più importanti. La leadership te la conquisti col comportamento di tutti i giorni, dimostrandoti capace di alzare la voce col campione come con il ragazzino, perché farlo solo coi più deboli è troppo facile. Ai miei dicevo: se volete vedermi arrabbiato vero, trattate male le persone che lavorano con e per voi. I miei collaboratori, i magazzinieri, i massaggiatori. Oppure i camerieri che vi servono in hotel. Ricordatevi che al loro posto potrebbe esserci vostro padre o vostro fratello“.

Sull’Ibra 40enne ed una sfida che potrebbe essere controproducente: “Nel suo corpo c’è soltanto lui. Guardi Buffon: vive la sua stessa sfida. Sono grandi atleti e grandi personaggi, soltanto loro possono dare ascolto ai segnali che gli lancia il fisico. Diranno basta quando in campo si accorgeranno di non riuscire più a fare quel che gli suggerisce la testa“.

Sulla difficoltà e la paura del ritiro: “Il problema dei campioni è scivolare dalla prima alla sesta o settima pagina dei giornali, o scomparire del tutto. Ma oggi ci sono i social, tante finestre per restare affacciati sul mondo e conservare visibilità. Quel che manca davvero è l’odore del campo, il rumore del pubblico, il gusto della sfida. È questo che ti dà l’adrenalina di cui Ibra parla nel libro e che finisci per rimpiangere. Anche a me succede ogni tanto, quando guardo le partite“.

Milan: Zlatan Ibrahimovic - Milanpress, robe dell'altro diavolo
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