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Indignazione a targhe alterne: il calcio italiano va dove tira il vento sul tema del razzismo

Nel teatro del calcio italiano, dove passione e emozioni si intrecciano con la prestazione atletica, emerge nuovamente l’ombra lunga e oscura del razzismo. L’ultimo atto di questo dramma coinvolge Francesco Acerbi e Juan Jesus, in un episodio che ha sollevato un mare di interrogativi fuori dal campo.

L’indignazione del calcio per il razzismo non sempre viaggia nella stessa direzione

Il calcio, da sempre specchio della società, riflette anche le sue contraddizioni e le sue battaglie, tra cui quella contro il razzismo. Eppure, l’indignazione sembra muoversi su un binario selettivo, alimentata più dal tifo che da un genuino desiderio di giustizia e parità. L’episodio incriminato, a differenza di altri, non ha scatenato quella reazione virulenta e unanime che si aspetterebbe in una società che ha fatto del contrasto al razzismo una bandiera.

Il passato non troppo remoto e il caso di Ibrahimovic e Lukaku

Riflettiamo su un passato non troppo remoto: la parola “donkey” rivolta da Zlatan Ibrahimovic a Romelu Lukaku ha acceso dibattiti e richiesto interventi severi, con voci che invocavano persino squalifiche a vita. Vero, l’odiosa macchietta del buon selvaggio africano e il «little donkey», asinello, suona troppo affine a «monkey» per eliminare ai vivisezionatori di labiali ogni dubbio. Eppure, oggi, di fronte a un altro caso di razzismo, il mondo del calcio sembra vacillare, incerto se condannare con la stessa veemenza o minimizzare per tifoserie.

L’ambivalenza che fa male a tutti

Questa ambivalenza nell’indignazione non fa altro che confermare una triste verità: l’intelligentia del nostro paese, così come il suo pubblico sportivo, sembra orientarsi più sulle onde del tifo che sui principi di uguaglianza e rispetto che dovrebbero essere universali. Il razzismo, vile e inaccettabile in ogni sua forma, non può e non deve trovare terreno fertile né sul campo né sugli spalti, né tantomeno nelle reazioni del pubblico e della critica. Ma dovrebbe avere anche equità di giudizio, cosa che finora non è venuta a galla.

Tempeste mediatiche o piccoli accenni

Come società, dobbiamo chiederci perché alcuni atti razzisti scatenano tempeste mediatiche mentre altri passano quasi sotto silenzio. È forse il momento di riconoscere che la lotta al razzismo nel calcio (e non solo) non può essere episodica o selettiva, ma deve essere costante, intransigente e priva di ogni forma di parzialità.

L’indignazione cresce se non si riconosce l’errore

Francesco Acerbi, oggi, ha lasciato la Nazionale dopo l’episodio. Il giocatore dell’Inter, finito nel mirino delle critiche, a suo dire non ha agito con fare diffamatorio, denigratorio o razzista nei confronti del difensore brasiliano in forza al Napoli. Di certo, però, nessuno ci venga a dire che l’allentamento del giocatore dalla nazionale non ha un non so che di punitivo; tutti parlano di gesto per garantire la necessaria serenità alla Nazionale e allo stesso calciatore, ma possibile che sia solo questo? E soprattutto, perché così poca enfasi al gesto? Aver chiamato “negro” un giocatore di colore non è razzista? E perché l’Inter si è limitata a dire che “… si riserva quanto prima un confronto con il proprio tesserato al fine di far luce sulle esatte dinamiche di quanto sia accaduto ieri sera”? A volte dire la verità è la strada migliore verso la redenzione.

In conclusione, l’episodio di Acerbi e Juan Jesus dovrebbe servire da campanello d’allarme, un promemoria che il razzismo è ancora un avversario da battere, in campo come nella vita. Solo quando l’indignazione per ogni atto di razzismo sarà unanime e indipendente da colori e campanili, potremo davvero dire di aver fatto gol contro la più odiosa delle discriminazioni. Quel che resta è l’amarezza. Ad Acerbi come viene spontanea un’offesa cosi gretta a Juan Jesus? Il razzismo, purtroppo, non basta combatterlo a parole. Servono i fatti.

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