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Maldini: “Il Milan è estrema passione: quando si parla di storia, va studiata. No, non vado più allo stadio, ma…”

Paolo Maldini torna a parlare: lo fa ai microfoni di Radio Serie A per il format “Storie di Serie A”. L’ex direttore dell’area tecnica e storico capitano del Milan rilascia delle dichiarazioni a qualche mese di distanza dall’ultima volta: era il 1º dicembre 2023 nell’intervista che fece molto rumore ai microfoni del quotidiano la Repubblica.

Per l’occasione, MilanPress.it vi fornisce la diretta testuale con le sue dichiarazioni tra passato, presente e futuro: rivivila con noi!

L’INTERVISTA A PAOLO MALDINI LIVE

Il presente: “Io lo sto vivendo bene. Dopo 5 anni intensi dal punto di vista lavorativo, ho dovuto abituarmi ad un ritmo diverso che però ho avuto anche dal 2009 al 2018”.

Il Milan: “Era presente prima che io nascessi, mio papà è stato calciatore e capitano. Per me il Milan è la squadra della mia città, l’ambiente dove sono cresciuto ed è per me qualcosa che va al di là sia del tifo che di quello che si può considerare un lavoro. È estrema passione. Il rapporto che c’è va al di là delle ere, sarà così anche per i miei figli. Ogni squadra può far sì che ogni tifoso rivendichi qualcosa di particolare. Noi milanisti abbiamo un passato glorioso. I rimbalzi del Milan negli anni sono stati clamorosi”.

La bacheca in casa: “Ho recentemente allestito nel mio studio a casa un posto dove porre medaglie”.

Riconoscenza verso il Milan: “Io sono nato come Paolo, cerco di fare la traiettoria della mia vita. Ho avuto la fortuna di incontrare le persone giuste nella mia carriera. Sarò sempre riconoscente ai miei ambienti, al Milan e alle persone che ho incontrato lì. Anche nell’ultima mia esperienza al Milan non ho finito di imparare. Quando vedi il calcio dall’altra parte, vedi tutto in maniera diversa. Cancellerei le cose che ho detto da calciatore, la visione è limitata. Custode del milanismo? Non lo so. Il calcio e il Milan in particolare mi hanno insegnato i principi. È una cosa che va al di là del risultato, è più importante. Quando si parla di una storia ultracentenaria, va studiata e imparata”.

Il figlio Daniel: “La sua scelta, come quella di Christian, di iniziare a giocare al Milan è stata libera. C’è il papà ingombrante e nei primi anni c’è solo voglia di giocare a calcio. Lui avendo visto me sapeva a cosa sarebbe dovuto andare incontro. Se potessi cancellare questa cosa per dare loro anni più sereni, lo farei. Lo sport è democratico: alla fine va avanti chi ha dei valori. Quando Daniel ha iniziato a giocare nelle giovanili del Milan, un allenatore per un anno ha fatto solamente dribbling e uno contro uno. Mi sono detto: intelligente, interessante”.

Responsabilità di essere un simbolo per la storia del Milan?“Non sento questa cosa. Certo, quando sei all’interno di una società il ruolo te lo impone. Quando vado in giro mi sento Paolo, non il milanista. Credo che la gente negli anni ti apprezzi come persona, non solo come calciatore. È una questione di disciplina: il calcio ti dovrebbe insegnare ciò, capire chi vuoi essere”.

Quando il milanismo si è impossessato di me?“A me piaceva il calcio, sapevo del passato di mio papà, essendo tifoso in generale amavo la nazionale e avevo visto il Mondiale del ’78 che era la Juventus in sostanza. Mi sono appassionato a quella storia. Ho seguito la Juventus come se fosse la nazionale, ma nel ’78 ho fatto il provino al Milan e le cose sono tornate come dovevano essere”.

Milano nel passato: “Sono stato un ragazzo molto vivace, curioso. In quegli anni si viveva molto per strada e c’erano tanti insegnamenti, innanzitutto avere gli occhi aperti. Era un periodo molto complicato per la storia di Milano, ma se penso alla mia non è la Milano pericolosa della fine degli anni ’70”.

Gli anni ’80: “È stato un bel periodo. Dal punto di vista lavorativo ho raggiunto il mio obiettivo giocando in prima squadra. La combinazione calcio-moda-Milano c’era e ho avuto la fortuna di conoscere Armani, Versace, il presidente Berlusconi che ha dato una svolta a tutte le nostre carriere. Era una Milano bella, si guardava il futuro sorridendo”.

La vita a Milano e per i milanesi: “Il milanese si sente perfetto per Milano perché ti lascia libero. Inizi a girarla, non è grande, inizi a scoprirla e ti fa innamorare piano piano. Vedo in Milano tante caratteristiche che sono mie. In cosa siamo simili? La discrezione, il fatto di essere riservato e non far vedere tutto subito. Qui ho trovato la famiglia e la possibilità di giocare nella squadra che aveva le mie stesse ambizioni. La mia vita poteva essere altrove se non fosse arrivato il presidente Berlusconi con la sua ambizione. Zone preferite? Casa (ride, ndr). Mi piace camminare nelle zone di Brera”.

Provino al Milan: “Si poteva fare solo dopo i 10 anni, mi accompagnò mio padre. Non avevo mai giocato a 11 in un campo regolare, mi chiesero il ruolo e non lo sapevo. Io ho chiesto che ruolo ci fosse a disposizione, mi dissero ala destra e io dissi ok. Alla fine un allenatore si avvicinò e mi fece firmare il famoso cartellino che mi legò al Milan per tantissimi anni. Il provino è stato l’inizio della mia storia con il Milan. Da quel momento ho provato a scrivere la mia storia. Mi piaceva giocare in attacco da ala destra. Giocando in diversi ruoli sin da piccolo puoi sviluppare certe caratteristiche. Non esisteva tattica, la prima volta l’ho fatta in prima squadra. È molto più facile insegnare dei concetti tattici piuttosto che di marcatura o dribbling”.

Cambio di ruolo: “Ho fatto i primi due anni da ala destra e sinistra, a 14-15 anni mi hanno messo terzino. Ai 15 ho fatto un’amichevole con il Milan prima squadra, a 16 sono stato convocato in ritiro con la prima squadra. C’era una Primavera piena di talenti come Costacurta”.

Timing: “Il timing che avevo sulla palla era dovuto a delle caratteristiche mie personali, ma anche a tutti quei rimbalzi e traiettorie viste nei campi irregolari”.

Il debutto: “Liedholm mi ha detto: ‘Malda, entri’. Mi chiese se volessi giocare a destra o sinistra e io risposi: ‘Come vuole lei’. Ci penso ogni tanto. La ricorrenza del 20 gennaio spesso la fanno vedere, è normale ricordarsela. Sono legato moralmente dentro di me soprattutto alle relazioni con le persone e anche ai momenti. La cosa bella del calcio è che devi condividere con le persone. Liedholm mi ha insegnato a giocare a calcio. Mi disse: ‘Ricordati che ti devi sempre divertire perché il calcio è divertimento'”.

La vita da calciatore: “È dura fare il calciatore. C’è una competizione pazzesca con gli altri: il 98% fallisce. Ognuno alla propria maniera sa che quella è la passione e gioia. La carriera mi ha tolto qualcosa? Sì, mi ha tolto magari un pezzo di gioventù. Ma si può dire che mi abbia tolto qualcosa? No, lì è iniziata la mia disciplina, il mio sacrificio. Sentirmi realizzato per la cosa che volevo fare è stata la cosa più bella”.

Il tennis: “Finita la carriera, ancora per 3-4 anni sono riuscito a giocare. Poi per me è stato impossibile continuare. Riesco a giocare a tennis, non so perché. Ho giocato un torneo ATP con una wild card: abbiamo perso 6-1 6-1 il doppio. Calciare il pallone mi fa male”.

Berlusconi: “Ha portato un’idea moderna e visionaria non solo del calcio, ma del mondo in generale. Voleva che la nostra squadra giocasse il miglior calcio del mondo, sia in casa che fuori. Voleva che diventassimo campioni del mondo. La cosa faceva un po’ ridere, ma già dall’anno dopo cambiò tutto: palestra, alimentazione, Milanello, preparatori. Era tutto farina del suo sacco, aveva già immaginato una struttura adatta. C’è sempre tanta diffidenza per l’imprenditore che entra nel calcio. È stato forse più difficile quando ha preso Sacchi: quello è stato il vero stravolgimento. Il fatto che non avesse fatto ancora nulla di importante nel calcio poteva dare qualche dubbio. Poi abbiamo iniziato a volare. Tutto il resto era fatto per farci crescere come persone. C’erano dirigenti con ruoli specifici, c’era il rispetto delle regole e dei ruoli. 

Rapporto deteriorato? No, non è così. Lui mi ha sempre detto che era il mio secondo padre. Due anni fa andai a pranzo con Galliani e lui ad Arcore. Prima di iniziare il pranzo dissi una cosa: ‘Voglio ringraziarvi per quello che avete fatto. Solo adesso capisco la grandezza’. Quando è stato ricoverato in ospedale, il giorno che è uscito, pochi giorni prima della sua morte, mi ha chiamato per fare degli scambi. Fu pure una telefonata a tarda ora. Conosceva benissimo i giocatori”.

La cosa migliore fatta al Milan da Berlusconi?: “A me piaceva molto la sua idea di giocare bene, vincere e rispettare l’avversario. Quando diceva che gli faceva piacere che vinceva l’Inter, lo diceva veramente. Complimentarsi con l’avversario a fine gara era un insegnamento. Berlusconi ha vissuto il calcio come passione, questo si sente e si trasmette. Che cosa crea un ambiente vincente? La città, il luogo di lavoro e le persone. Le relazioni coltivate nel tempo portano qualcosa”.

Sacchi: “Noi ci siamo messi a disposizione, ma fu fisicamente e mentalmente durissimo. Non c’era abbastanza conoscenza dal punto di vista fisico. Io credo di essere andato in over-training per più mesi. Avevamo alti e bassi all’inizio. La diffidenza era dovuta da un adattamento al lavoro fisico. Non c’era alcuna corrente contro Sacchi, era solamente dura adattarsi alla sua idea. Probabilmente si adattò anche lui a noi. Lui ci insegnò a vincere? Il Milan di quegli anni aveva grandi giocatori, con una delle difese più forti di sempre. Con lui perché è finita? È normale. Quando trovi un allenatore così esigente, è un prodotto che ha una scadenza. Quando sei così ossessionato, ti consumi facilmente. Questo succede a tutti i grandi allenatori. Sembrava la descrizione di Conte quella di Sacchi? Sì, è così. Tutti gli insegnamenti poi te li porti dietro e li adatti al tuo futuro”.

Capello: “Capello era un uomo di campo. Ti diceva tantissime cose, era una persona molto pratica. Ha proseguito il lavoro tattico e fisico di Sacchi. La squadra di quegli anni fu in assoluto la squadra più forte. Ha aggiunto un minimo di praticità ad un concetto utopistico a volte, come quello di Sacchi. Era la perfetta combinazione. Liedholm, Sacchi, Capello: la fortuna di averli avuto in quest’ordine”.

Capitano nel 1997: “Avevo 29 anni, era già 13 anni che giocavo in Serie A e da 3 anni capitano della nazionale. Quindi mi ero abituato a quel ruolo. Farlo nel Milan e in maniera quotidiana era diverso, anche perché in quegli anni non andavamo benissimo”.

Coppa più bella: “Difficile dirne una. Sono tutte belle, distribuite non nel corso di 3 anni fantastici, ma 20-25 anni. Quella di Manchester arriva 9 anni dopo l’ultima appena alzata. Fu forse quella più ambita perché ero capitano”.

Ancelotti da ex compagno ad allenatore: “Ci si comporta in maniera naturale, non puoi far finta che il passato non ci sia stato. Lo chiamavo Carlo più che mister. Non c’era bisogno di dire troppe cose. Non sono molto bravo a raccontare aneddoti: di Carlo si pensa sia la persona più tranquilla del mondo, ma non è così. C’è una maschera. Si sedeva prima della partita e mi diceva che dentro sentiva di tutto. Bisogna far finta ogni tanto”.

Giocatore più forte con cui ha giocato: “Non posso dirne solo uno. Come forza morale e caratteristiche difensive, Franco Baresi era perfetto. Poi non parlava mai e agiva solo: perfetto. Poi ho avuto la fortuna di giocare con Van Basten. Ronaldo e Ronaldinho tecnicamente sono i giocatori più forti, ma sono arrivati in periodi difficili. Ronaldo dell’Inter? A me piaceva andare a fare l’uno contro uno, ma con lui era molto dura. Non si fermava, le regole erano molto più permissive e potevi usare più il fisico, ma anche lui fisicamente era grosso”.

Un ‘no’ difficile da pronunciare da calciatore: “No, ci sono stati dei momenti delicati all’interno del mio club. Le cose non andavano bene e c’era molta amarezza da parte mia, ma ciò non mi porta a cambiare, ma migliorare le cose. No al Real difficile? Sì, se non sei contento al Milan. In quegli anni non c’era niente di meglio”.

Pallone d’Oro mai vinto un’ingiustizia?: “È più una cosa giornalistica. Essendo un premio individuale, non era uno dei miei obiettivi. Per me non certifica che sei il giocatore migliore, per me sono altre cose”.

Miglior perdente della storia:C’è un fondo di verità: le vittorie passano attraverso le sconfitte. Ho perso 8-9 finali, sono tante. Ho avuto la fortuna di giocarne altrettante, se non di più. Non posso considerarmi un perdente nella vita. Istanbul ferita aperta? No, basta. Dopo Istanbul c’è sempre Atene“.

Mondiale 2006: “No, niente tarlo. Ne ho giocati 4. Faticavo a fare il doppio impegno campionato-coppe, volevo preservare gli ultimi anni e non volevo essere un peso. Poi avevo già detto di no all’Europeo del 2004 e non mi sembrava giusto. Poi se ci fossi stato io, magari non avremmo vinto”.

Quando ho capito di voler fare il dirigente: “Quando mi hanno chiamato. Ho avuto chiaro quello che non ho voluto fare: allenatore, lavorare in televisione e altre cose. Quando è arrivata l’opportunità con Leonardo, anche se era arrivata anche prima, ho condiviso ideali e principi. Si parla di un lavoro di squadra. La cosa che mi piaceva di più? Perché era il Milan, perché nei 31 anni di carriera ho avuto un sacco di esperienza e cose da insegnare. E poi c’è il lavoro in sé che è tutt’altro. Il periodo di adattamento è durato una decina di mesi. I miei primi 10 mesi da dirigente mi sentivo inadeguato, tornavo a casa e non ero contento. Non riuscivo a determinare qualcosa. Leonardo rideva e mi diceva: ‘Tu non ti rendi conto, te ne renderai conto poi del tuo impatto'”.

Milan, Nazionale o niente: regola ancora valida?:“Vale soprattutto per l’Italia. Vedermi all’interno di un club diverso dal Milan non ce la faccio. Questo non si fa. Non ho mai detto di no al PSG. Prima di andare al Milan ho parlato con Nasser a Parigi due o tre volte, la cosa non è andata avanti. Pensandoci adesso è andata bene così”.

Andare allo stadio a vedere il Milan: “No, logicamente. Seguo ancora il Milan, il Monza e l’Empoli dove giocava mio figlio. Abbiamo creato un sacco di relazioni con i giocatori in questi 4-5 anni. Con ognuno di loro si è creato un rapporto speciale. Quando vedo la fascia sinistra del Milan dai, è uno spettacolo”.

Inter: “È molto indicativo quanto successo. L’Inter ha una struttura sportiva che determina il futuro dell’area sportiva, è stata gratificata con contratti a lunga scadenza. Non è un caso che il Napoli sia andato male dopo l’addio dell’allenatore e del ds. A volte si considerano i giocatori come delle macchine, ma il supporto a loro credo sia una delle cose più inespresse nel calcio. Hanno bisogno anche di dire loro le cose come stanno”.

Il passato fa paura?: “A volte sì, ma a volta non è detto che avere il grande passato da calciatore ti debba dare un grande presente da dirigente. Fin quando non si prova non si sa e quando non ti danno l’occasione è probabilmente perché il tuo passato è ingombrante”.

Paolo Maldini (Photo Credit: Agenzia Fotogramma)
Paolo Maldini (Photo Credit: Agenzia Fotogramma)

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