La storia d’amore tra il Milan e Maldini è destinata a finire, per la seconda volta. Ancora male, dopo quell’ormai lontano 31 maggio del 2009 a Firenze, una settimana dopo i fischi – in realtà pochi – di uno spicchio della curva rossonera. Da parte di pochi, appunto, ma comunque dolorosi. Dolorosi come questo finale di stagione, vissuto con Ivan Gazidis da separato in casa.
Di ieri la notizia che Elliott vorrebbe trattenerlo nello staff dirigenziale. Così di stamane quella di un accordo ormai raggiunto tra la società di via Aldo Rossi e Ralf Ragnick. Come ormai noto, il tedesco verrebbe a Milano nelle vesti non solo di allenatore ma anche e soprattutto di direttore sportivo, come una sorta di manager che fa mercato, si sceglie i giocatori e li dispone in campo. Una figura inedita per il calcio nostrano.
E allora cosa rimarrebbe da fare a Paolo Maldini? Pressoché nulla. Lui il taglianastri, l’ambasciatore non lo ha mai voluto fare, tanto meno ora che ha cominciato ad assaporare l’ebbrezza della professione dirigenziale. È stato motivo di rifiuto ai tempi di Berlusconi, poi di Fassone e Mirabelli. Lo sarà sicuramente anche il prossimo agosto.
Brutto da dire, quasi blasfemo, ma è giusto così. Deciso di intraprendere una strada, di sposare un progetto nuovo – basato sui giovani, sugli ingaggi modesti e sulle plusvalenze – sarebbe inutile, se non controproducente, “tenersi il nemico in casa”. Catena di comando corta è quello di cui ha bisogno il Milan: poche teste pensanti e unità di intenti. Tutto ciò che non ha più trovato dal famoso inserimento di Barbara Berlusconi. Dunque largo a Rangnick, a Almstad, a Moncada. Insomma, a tutti gli uomini di Gazidis. E in bocca al lupo a Paolino: un addio immeritato, ma funzionale ed inevitabile.
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